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Trenitalia e lo spot di Frecciarossa, il caso

Che cosa c’entra Trenitalia e Frecciarossa in un blog dove si parla di giornalismo è la domanda che credo si […]

Trenitalia e lo spot di Frecciarossa, il caso
Trenitalia e lo spot di Frecciarossa, il caso

Che cosa c’entra Trenitalia e Frecciarossa in un blog dove si parla di giornalismo è la domanda che credo si siano fatti tutti coloro che sono capitati in questo posto. Al fine di non far perdere loro tempo spiego subito il perché ho voluto titolare questo post in questo modo.

Sul finire del 2011 Trenitalia ha lanciato i nuovi pacchetti di Frecciarossa, il treno ad alta velocità che copre gran parte d’Italia. La nuova campagna di Frecciarossa ha scatenato l’ira delle associazioni di consumatori per le interdizioni alle carrozze superiori da parte di chi utilizza il servizio Standard ovvero quello più economico. Visto il periodo di crisi possiamo anche affermare che il servizio interessa molta gente che si sposta per lavoro ma che non guadagna tanto da potersi permettere pacchetti superiori.

La storia mi ha colpito a tal punto da ispirare un articolo sul blog diviaggi di  FullTravel che quotidianamente curo. Il mio articolo, però, non si è limitato alla mera questione dei pacchetti ma ha sollevato anche un altro caso. Accanto alla presentazione del servizio Standard, Frecciarossa ha esibito una coppia di colore a differenza delle altre immagini relative ai pacchetti superiori.

Da qui si è scatenato un effetto virale, proprio della Rete, tanto che a partire dal mio articolo dal titolo “Trenitalia e la gaffe razzista della pubblicità Frecciarossa” sono stati numerosissimi i blogger che hanno ripresola notizia. Ma non solo. Sono intervenute le associazioni di consumatori, ne ha parlato il Corriere della Sera online (senza citare la fonte, che brutto costume), il Secolo XIX e perfino il TG3 nazionale ha dedicato un servizio sull’argomento.

Per chi volesse ricostruire la storia ecco alcuni punti salienti:

Ad accorgersene è stata una freelance, Anna Bruno, che quattro giorni fa ha postato sul suo blog Fulltravel.it questa notizia: “Trenitalia e la gaffe razzista della pubblicità Frecciarossa”. Manco a dirlo, il Web ha fatto subito montare la polemica e su Facebook si sono organizzati gruppi per chiedere il ritiro della campagna pubblicitaria. Sotto accusa è finito l’accostamento tra immagine e messaggio: mamma, papà e figlia sono di carnagione scura, del tipo indiano. Questo solo per il livello Standard, perché a salire, nei più lussuosi Premium, Business ed Executive, tra manager e donne d’affari in tailleur, di gente di colore non c’è traccia. In verità se si va a spulciare più a fondo nella massiccia campagna video di presentazione dei nuovi 4 livelli di servizio, con cui a poco a poco saranno sostituite le storiche prima e seconda classe, si trova il filmato della saletta meeting. «Come si vede, anche qui c’è un uomo di colore», ribattono da Trenitalia. Vero, e accanto a lui c’è una donna dall’incarnato più ambrato. Ma entrambi sono due sottoposti del manager con completo e cravatta tutto d’un pezzo, che però è bianco che più bianco non si può. «Sciocchezze e falsità – rispondono da Trenitalia -. Abbiamo già inviato una smentita al blog, spiegando che neanche ci abbiamo fatto caso al colore. A differenza di chi lo ha notato e a cui forse importa più che a noi il colore della pelle».

In realtà non ho mai ricevuto nessuna smentita da Trenitalia, non capisco a quale blog si riferisca il portavoce dell’azienda in questione. Tuttavia, l’immagine è stata sostituita, come da me documentato sul blog “Trenitalia e la gaffe razzista della pubblicità Frecciarossa. Se Trenitalia non aveva nulla da rimproverarsi perché provvedere alla rimozione prima e alla sostituzione poi con un’immagine dai sedili vuoti?

Ho voluto ricostruire, in questo spazio, la storia del caso sollevato in seguito ad un mio articolo perché vorrei dedicare questo “piccolo momento di gloria” a tutti i giornalisti che ogni giorno tirano fuori notizie preziose e casi singolari senza ricevere la giusta riconoscenza e, spesso, il giusto compenso.

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